domingo, 27 de noviembre de 2016

La super polizia europea



Da Le nuove coordinate della «guerra tra la gente», in Dante Lepore, Gemeinwesen o Gemeinschaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, PonSinMor, Gassino Torinese, Febbraio 2011, pp. 47-56

A proposito di super polizia europea nel Grande fratello

[…] Lasciamo ad altri documentare e studiare gli innumerevoli episodi d’insorgenza sociale di questa fine anno 2010 e inizio 2011, attestanti l’insofferenza generalizzata verso questo stato di cose, ora incarognita anche dalla crisi economica. Ci basterà descrivere qualche episodio significativo, in un contesto che denota come la specie umana, pur nella maniera sempre lacerata internamente dagli antagonismi, anziché assuefarsi in una comunità totalmente alienata, si sia già mossa per questo «rintocco funebre» del dominio totalizzante del capitale, in barba a chi, stanco di teorizzare l’«integrazione» di una forza-lavoro (che per definizione è già parte integrante del rapporto capitalistico) ora va immaginando una «de-integrazione», altrettanto paranoica se concepita come semplice fatto economico.

È pur vero che non basteranno i «giorni della collera», dalla Tunisia all’Algeria all’Egitto e forse ancora allo Yemen e alla Giordania e ai Balcani, e altrove, ma anche i fenomeni della coscienza, a volte, riservano sorprese! In tutto il Nord Africa, per cominciare, solo la collera dei dannati ha liquidato in pochi giorni regimi autoritari post-coloniali che sembravano intramontabili, con i forti apparati di polizia (i moukhabarat egiziani resi impotenti sul campo) al punto da costringere, come in Egitto appunto, un esercito [1] che fraternizza con gli insorti e un Obama a sconfessare il vecchio faraone, campione del moderatismo arabo a tutela della lobby israelo-americana in Medio Oriente.

La questione è importante, anche perché le guerre fra Stati nazionali è un bel po’ che stanno cedendo la scena prima alle guerre imperialiste e poi alle coalizioni sovranazionali che, di fatto, rendono obsoleto lo stesso concetto di «sovranità» nazionale. Beninteso, si tratta di un inter-nazionalismo tra borghesie costitutivamente litigiose (che peraltro non esitano a considerare la scelta di fomentare ad arte le guerre per procura, perché costituiscono ormai uno degli strumenti collaudati per la svalorizzazione violenta del capitale e per il lucroso investimento anticiclico nell’industria del massacro) ma che comunque dovrebbe far riflettere sui caratteri che viene ad assumere in un contesto sociale di questo genere lo stesso «internazionalismo proletario» che sarebbe grottesco pensare come l’unità fra i proletari degli stati nazionali, che del resto ha mostrato la corda già negli anni ’20 della Terza Internazionale. Nei fatti, i giovani «senza futuro» del Maghreb, stanno realizzando la forma più moderna di internazionalismo, favoriti anche dalla comune lingua araba, scambiandosi dalla Tunisia all’Egitto le tattiche e le tecniche per fronteggiare e persino sconfiggere sul campo le migliaia di poliziotti antisommossa. 

L’accelerata mutevolezza dei rapporti economici nelle varie aree del mondo mette anche a nudo la volubilità dei rapporti di potenza e delle relazioni tra Stati. Ciò non sopprime affatto né la realtà delle guerre inter-imperialiste, né le questioni nazionali, che anzi vengono spesso artificiosamente messe in campo nella dinamica dei rapporti internazionali, nella maniera più assurda e paradossale, da un lato (ad es., con la riunificazione tedesca del 1989) dall’altro con la frammentazione della Jugoslavia o con la riesumazione di nazioni scomparse (come le repubbliche baltiche) o dell’Ucraina e Bielorussia, mai esistite come entità statali e soggetti internazionali. 

La novità non sta neppure nel fatto che le guerre inter-imperialiste si svolgono su un terreno economico e sociale a partire dai basilari interessi economici e finanziari dei gruppi economici internazionali. Spesso sono i gruppi economici a condurre direttamente guerre silenziose e trasversali e a condizionare governi e alleanze anche sul piano militare. Un esempio è proprio quello dell’Unione europea che, pur in un generale orientamento atlantista, vede al suo interno una Germania orientata a spostare il peso delle relazioni economiche dal Nord America nonché dall’area dell’euro ad una alleanza strategica verso la Russia con una proiezione verso l’Asia, e al tempo stesso a coltivare una troika tra Francia, Germania e Russia mentre, dall’altro lato, la Francia non esita a stipulare un Trattato di difesa e cooperazione nucleare con la Gran Bretagna che, a sua volta, tende a sganciare la Francia dallo stretto legame con Berlino. Di fatto, Francia e Gran Bretagna, assediate dalla questione fiscale, sono costrette a integrare in modo bilaterale le rispettive capacità militari per garantirsi i rispettivi interessi imperialisti in un momento di crisi in cui qualunque investimento in armamento e difesa causerebbe ulteriore tassazione e possibili conseguenti insorgenze popolari.



Ma è proprio nelle misure di «sicurezza» contro l’insorgenza sociale che l’Unione Europea sembra raggiungere, non a caso, un’armonia e una collaborazione più tangibili di quella di cui difettano nelle relazioni internazionali, dove è evidente la dialettica tra «cessione di sovranità», «sovranità limitata», «non ingerenza» e «diritto di ingerenza». A livello poliziesco, di sicurezza civile e penale, di controllo del territorio e dell’emigrazione, di terrorismo e criminalità, la collaborazione è in atto da diversi anni, con estensione di competenze, programmi e creazione di Autorità, accesso a banche dati del DNA e impronte digitali, archivi e registri automobilistici, formazione di squadre speciali dirette da Europol, cooperazione tra polizie e servizi segreti, monitoraggio di Internet, controllo delle reti di telecomunicazioni e provider. Vengono effettuati addestramenti comuni e operazioni di contrasto a manifestazioni di protesta e create accademie europee di polizia (CEPOL) che studiano tattiche per il crowd management (controllo della folla). 

I programmi di ricerca, lautamente sovvenzionati, non si contano, così gli Istituti, anche in ambito ONU, come UNICRI (Istituto di Ricerca Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sulla Criminalità e la Giustizia), curatore di un manuale antiterrorismo (Counter-Terrorism Online Handbook), con vari gruppi di lavoro, uno dei quali ha sede in Torino (IPO, Osservatorio permanente per la sicurezza durante i grandi Eventi). Né si trascura il riarmo tecnologico: apparecchiature per l’esplorazione visiva notturna, elaborazione automatizzata di monitoraggi video, cavi a radiofrequenza in grado di misurare la percentuale d’acqua in corpi stazionanti o circolanti nei pressi).

L’ampliamento del SIS (Sistema Informativo di Schengen) consente alle centrali di polizia cogestite di elaborare più dati biometrici di migranti, l’attivazione del SIV (Sistema Informativo per i Visti) archivia impronte digitali e dati biometrici dei migranti.

L’agenzia di frontiera (FRONTEX) con sede a Varsavia è esplicitamente concepita come «baluardo della difesa europea dalla migrazione», tiene un Registro Tecnico Centrale (Toolbox) delle attrezzature dei Paesi membri per il controllo e la sorveglianza dei confini. Vengono maggiormente equipaggiate le squadre di frontiera. I Carabinieri italiani, divenuti per questo una forza armata, sono dotati di nuove imbarcazioni, elicotteri e apparecchiature per il monitoraggio. Il Trattato di Lisbona prevede riforme anche nel campo della politica militare, mentre la Politica Europea per la Sicurezza e Difesa (PESD) dovrebbe migliorare le sue capacità militari, ma questo non sta avvenendo in soluzione comune, tanto meno con l’istituzione, prevista per il 2010, di propri contingenti armati. Esiste però uno strumento d’intervento in Paesi terzi, la Forza di Gendarmeria Europea (Eurogendfor) di stanza a Vicenza, con un suo Centro di addestramento (CoESPU) [2].

La polarizzazione di ricchezza e miseria, come mostrano i dati che forniamo in questo lavoro, ha ridotto ormai le classi che detengono le condizioni della produzione mondiale ad un 10% dell’umanità con oltre il 90% del reddito prodotto. Se non è questa la polarizzazione preconizzata del vecchio Marx! Certamente questo strato di umanità è armato di tutto punto e contornato di un nutrito stuolo di lacchè e servitori parassiti a vario titolo provenienti dal restante 90% chiamato a fornire, oltre a quel reddito, lacchè e servitori, anche i contingenti armati di questa controrivoluzione preventiva securitaria, che peraltro fanno sempre più ricorso all’arma del conflitto religioso, al cosiddetto «scontro di civiltà» e a quella mostruosa creazione, a livelli industriali di divisione, che è il razzismo, per controllare, in modo diversificato, e all’occasione mettere gli uni contro gli altri, gruppi etnici, religiosi, culturali, linguistici, nazionali.

«Il nemico è in casa nostra»: è certamente una parola d’ordine metaforica, come lo era al tempo di Karl Liebknecht, ma non più solo contro le rispettive borghesie nazionali, bensì contro il capitale totale, contro la sua comunità totale. Non è un caso che le ideologie nazionaliste, almeno nei rapporti tra le vecchie potenze occidentali, sono sempre meno adatte alla mobilitazione [3], rispetto invece alle ideologie religiose (islam da un lato e giudeo-cristianesimo, indù, buddhisti contro tamil ecc. dall’altro), nonché rispetto ai miti «civili» della democrazia e connessi.

Si accentua nelle grandi metropoli imperialiste la mobilitazione ideologica securitaria, contro il terrorismo, per la democrazia, contro il clandestino, fino al più becero razzismo contro il diverso. Assumono sempre più rilevanza nella nuova strategia le procedure di controllo dell’informazione, di intelligence, di manipolazione mediatica dell’opinione e del consenso.

Né hanno senso in questo contesto le armi e le strategie usate su Belgrado o su Bagdad, quando si tratta, ad es., di controllare agglomerati come quelli di Algeri, Tunisi o Il Cairo, o come quello di Sadr City, uno dei più grandi del mondo, o quello di Mogadiscio, dove nel 1993 gli Army Rangers, corpo elitario dell’esercito Usa, subirono una disfatta dell’ordine del 60% da parte della milizia dello slum [4], che ha indotto il Pentagono a rivedere la Militarized Operations on Urbanized Terrain (MOUT). 

Nella primavera del 1996, la rivista dell’Army War College «Parameteres» pubblica lo studio Our Soldiers, Their Cities, dove si afferma che «il futuro della tecnica bellica sta nelle strade, nelle fogne, negli edifici multipiano, nella incontrollata espansione delle case che formano le città frammentate del mondo.

[…]La nostra recente storia militare è punteggiata di nomi di città – Tuzla, Mogadiscio, Los Angeles, Beirut, Panama, Hue, Saigon, Santo Domingo – ma questi scontri sono stati solo un prologo, mentre il dramma vero e proprio deve ancora cominciare».

La concentrazione urbana delle popolazioni è nell’ordine delle cose all’origine dello sviluppo capitalistico, ed è lo specchio della disintegrazione costitutiva della comunità umana, che si riduce ad una massa di atomi egoisticamente privati dell’elemento sociale che ne fa delle cose asservite e schiavizzate e al tempo stesso segregate in uno spazio che deve permanentemente adattarsi a questa funzione segregante gestita dallo Stato. Ciò comporta una permanente guerra sociale che assume contorni quantitativi e caratteristiche diverse a seconda dell’epoca storica.

Nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, la «legge sui poveri» e i suoi effetti sulla conformazione urbanistica delle città industriali, sulle famigerate workhousesa Londra e a Manchester, sono descritte da Engels [5].

Dopo la Comune di Parigi, la borghesia francese percepisce il pericolo connesso con l’insorgenza operaia e la necessità di pianificazione urbanistica in previsione degli scontri futuri, sventrando interi quartieri e dotandosi di vie di fuga nei grandi boulevards. Da allora in poi, ogni pianificazione urbanistica contemplò l’esigenza di autodifesa delle classi dominanti, di segregazione delle classi «pericolose» e di intervento militare dello Stato.

Nel luglio 1967, Detroit era la quinta città degli USA (oltre 1 milione e mezzo di abitanti) con un proletariato, a maggioranza nero, di 800 mila operai solo nell’industria automobilistica della zona. I moti che scoppiarono in seguito alla crisi automobilistica videro impegnati 13 mila paracadutisti della 101^ Divisione, e carri armati, mentre polizia e Guardia nazionale si rivelarono impotenti a contenerli [6].

Oggi l’antica capitale dell’automobile è una Shrinking City (città che «si riduce»): specchio della decadenza e della regressione sociale, ha perduto la metà della popolazione, circa un milione di abitanti, il 35% del territorio municipale è disabitato, e il processo si è aggravato con la crisi dei subprime: 67 mila abitazioni sono state sequestrate in tre anni. Una delle metropoli più povere, con un terzo della popolazione sotto la soglia di povertà, 9 abitanti su 10 neri, con un apartheid fisico tra centro e sobborghi dove si concentrano le classi medie e le attività economiche. «I grattacieli abbandonati del centro-città, aste senza bandiere, sono ormai i simboli della decadenza» [7].

Carcasse carbonizzate, parcheggi abbandonati, fabbriche dismesse, l’urbano di decompone, l’addensamento si ruralizza, e riprendono i suoni della natura, il canto del gallo e degli uccelli selvatici. Solo la banlieue avanza. Secondo Kurt Metzger, direttore di un ufficio studi demografici locale, il tasso reale di disoccupazione raggiunge anche il 40% (contro il 28,9% «ufficiale»). Ciò significa minore base fiscale e drastiche riduzioni dei servizi pubblici. Il tasso di mortalità infantile s’impenna al 18 per mille (3 volte la media degli USA, e uguale a quello dello Sri Lanka). Ovviamente, …si sciopera sempre meno. La situazione di Detroit è analoga a tutte le città della zona dei Grandi Laghi, dove la fatiscenza degli scheletri arrugginiti degli impianti dismessi e la devastazione si estende per centinaia di km! [8]

E non è certo in un contesto del genere che si svolge l’insorgenza sociale che sta provocando la «rivoluzione» maghrebina! Qui c’è anzi un considerevole sviluppo economico in atto, come documentiamo (v. cap. 3), con forti investimenti industriali, commerciali, turistici e finanziari, con effetti enormi di ricomposizione sociale e necessarie riformulazioni dei poteri politici, fiscali ed am-ministrativi, e dove l’urbanizzazione raggiunge livelli imponenti.

Ogni periodico riassetto urbanistico, pertanto, non è altro che una fase di guerra sociale in atto.

Si pensi alle città ex coloniali dove i problemi si ingigantiscono nell’epoca post-coloniale dove il problema della rimozione delle popolazioni pericolose diventa gigantesco per dimensioni, per velocità di trasformazioni e dove l’aspetto militare è più vistoso. Si pensi ai faraonici programmi di riassetto urbanistico in Birmania ad opera della dittatura narco-militare per il «Visit Myanmar Year 1996», che ha visto l’impiego di lavoro forzato per le infrastrutture turistiche e una vera e propria deportazione di popolazione dai centri cittadini in quartieri e nuove città distanti centinaia di km.

Per analogia con passate rivolte «del pane», si potrebbe risalire alla primavera del 1992, a quella che apparve subito come la più violenta e sanguinosa rivolta urbana del Novecento americano, a Los Angeles, seconda città degli Stati Uniti e capitale di uno Stato (la California) che da solo costituiva allora per PIL la 12^ potenza mondiale, per tracciare alcune linee di continuità che si sarebbero poi evolute fino all’attuale realtà dell’insorgenza sociale metropolitana [9]. Circa 50 mila manifestanti (ma, dalle varie fonti, si capisce che la folla coinvolta in varie forme era quattro volte più numerosa) tennero impegnati 8 mila fanti dei marines insieme al altri 12 mila della Guardia Nazionale in scontri, saccheggi, con una sessantina di morti, 3.000 feriti, 12.500 tra fermati e arrestati, 300 negozi devastati o incendiati, circa un miliardo di $ di danni. Un esercito federale che interveniva massicciamente in una delle periferie più caratteristiche del mondo, non fuori ma dentro i propri confini [10].

Ci fermiamo qui, per ora, perché per dimensioni e specificità, le rivolte del Nord Africa hanno espresso solo alcune potenzialità, che ci sembrano già epocali e che bisognerà studiare con grande attenzione.

Note

[1] Nel suo trentennale dominio, Mubarak è riuscito a realizzare una sorta di «equilibrio dinamico del pluralismo autoritario», mediante una ri-articolazione del ruolo economico dello stato: «Anche i militari (attori kofòs della politica egiziana) si sono trasformati in imprenditori: l’esercito ha allargato il proprio range di attività alla sfera civile-economica, entrando in joint ventures che spaziano dal settore agro-alimentare all’edilizia, alla gestione di catene di grandi magazzini, mentre dal punto di vista meramente politico la nomina per decreto presidenziale dei governatori avviene di norma tra i ranghi degli ufficiali dell’esercito e permette loro di detenere un significativo potere decisionale sulle politiche locali e sull’allocazione dei fondi destinati all’amministrazione» (Elena Piffero, Egitto: l’equilibrio dinamico del pluralismo autoritario, SSDD, WP/4/2007). 

[2] Cfr. Gipfelsoli, Abbattere l’architettura securitaria europea, 3.6.2008 http://gipfelsoli.org/Heiligendamm2007italiano/4821.html.

[3] Le stesse celebrazioni del 150° dell’unità d’Italia mettono in imbarazzo gli stessi borghesi, non solo per via del localismo leghista, ma proprio perché  al patriottismo nazionale non ci crede più nessuno.

[4] Lee Sustar (a cura di), Mike Davis… cit.

[5] F. Engels, La classe operaia in Inghilterra, 1845.

[6Marx non è superato a Detroit, in «Lotta Comunista», n. 17-18, lu.-ag. 1967.

[7] Allan Popelard e Paul Vannier, Detroit, la ville afro-américaine qui rétrécit, Le Monde Diplomatique, gen. 2010.

[8] Vedine la descrizione in Loren Goldner, Capitale fittizio e crisi del capitalismo, cit.

[9] La municipalità di Los Angeles costituisce, assieme a numerosi altri centri delle contee di Los Angeles e Orange, una vastissima area urbana che con oltre 12 milioni di abitanti è la seconda degli USA dopo quella di New York e tra le prime del mondo. Una delle popolazioni più diversificate etnicamente del mondo. Solo Miami ha una maggiore percentuale di abitanti nati all'estero. La popolazione di origine ispanica (soprattutto messicana) aumenta in misura considerevole di anno in anno, al punto che ormai il 46,53 % è di origine latina e la città è praticamente bilingue. La popolazione asiatica è la maggiore degli Stati Uniti (nella Contea di Los Angeles vivono circa 1. 400. 000 asiatici). Ospita le più grosse comunità mondiali di armeni, filippini, guatemaltechi, ungheresi, israeliani, coreani, messicani, salvadoregni e thailandesi al di fuori dei rispettivi paesi. Vi si trovano anche le maggiori comunità statunitensi di iraniani e giapponesi. La popolazione di origine nativa americana è consistente e rappresenta l'1.4%, è divisa in diversi distretti, molti dei quali erano comunità autonome, entrate nel tempo a far parte della città. Molte municipalità autonome vengono associate alla metropoli, fanno parte dell'agglomerato urbano e sono incluse nella Los Angeles County.

[10] Cfr., fra gli altri, The Rebellion in Los Angeles: The Context of a Proletarian Uprising, in «Aufheben», n. 1, Autumn 1992, pp. 1-16, disponibile in pdf:
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